UNITED COLOR OF AMERICA
di Michele Di Mauro
Mercoledì quattro settembre, prima ora. Dopo settantotto giorni, quindici ore e quaranta minuti di inerzia scandita da pomeriggi dilapidati davanti a Youtube, feste notturne, storie social, vacanze con la famiglia nelle spiagge bianche della Carolina, caraffe di CocaCola e cestini di popcorn sgranocchiati nei multisala di Cinemark movie Bistrot di Charlotte, la classe si presenta in recovery mode. Nel frattempo, io, come se niente fosse, cerco di imporre una marcia forzata sull’ablativo strumentale mentre i miei occhi traballanti fanno a pugni con la cacofonia di colori che mi si para davanti.
Prima fila. Kenzie indossa una magliettina a maniche corte che restituisce generose porzioni di carne. La scritta al centro è fucsia con brillantini dorati e recita un laico: Jesus saves, I spend.
Alla sua sinistra Amira indossa un hijab azzurro che le copre capelli e guance perfettamente intonato con i pantaloni turchesi.
Secondo tavolo, Alex, un ragazzone che peserà un quintale per un metro e novanta indossa la divisa bianca di football della scuola con vistose chiazze di cibo frammiste a terriccio ed erba strusciata, jeans tutt’altro che immacolati e ciabatte da piscina nere con calzini bianchi.
A chiudere la fila c’è Sarah, pelle diafana, volto emaciato, una maglietta nera che mette in risalto le costole come se fossero scalini a pioli e una scritta che recita: Hell on earth.
Chissà, forse una metafora di questa giornata.
Seconda fila, primo banco, quello di Seth, vuoto.
Al suo fianco Pajr indossa un turbante arancione che mette in risalto il naso aquilino e la pelle olivastra, jeans scuri e una camicia bianca con bottoni dorati.
Alla sua sinistra Sam, un ragazzo di colore, indossa la divisa viola dei Baltimore Ravens, la squadra di football di Baltimora. Peccato che tra tutte le magliette ha comprato quella di Ray Rice, giocatore radiato dalla NFL per aver massacrato di botte la moglie in un ascensore del casinò di Atlantic City in New Jersey.
A chiudere la fila Angella con due elle, una ragazza asiatica. Maglietta fucsia che recita un pragmatico: Eat, sleep repeat, capelli viola tendenti al fucsia, mini-shorts e infradito.
Terza ed ultima fila, la boscaglia dei ribelli. Al primo banco sulla destra siede Precious, presidentessa dell’African American Association della scuola. Capelli afro, un paio di occhiali a specchio anni Settanta, una maglietta nera che riporta la scritta fluorescente: Maybe she’s born with it… maybe it’s MELANIN.
Alla destra di Precious siede Uriah Moore, presidente dell’associazione ebraica della scuola. Indossa un completo gessato con camicia bianca e un kippah di velluto nero in testa. Alla sinistra di Precious c’è Priscilla Bateman, presidentessa del Teta Kappa Delta, English Honor society. Capelli rossi raccolti in uno chignon, occhiali neri spessi, anche se secondo me non sono reali occhiali da vista ma da rappresentanza, cardigan acqua e jeans chiari slavati.
Chiude la fila Destiny, presidentessa delle varsity cheerleaders. Leggins aderenti, stivaletti di camoscio chiaro, decisamente invernali, maglietta leggera di flanella, senza scritte. È una calda mattinata di settembre, fuori ci saranno come minimo trenta gradi. Secondo me i piedi di Destiny staranno bollendo in quelle camere iperbariche di camoscio.
Il ripasso sull’ablativo strumentale procede in sync mode quando la porta si apre di schianto. È un ragazzo confuso, sudato, trafelato.
Mi stropiccio gli occhi mentre cerco di mettere a fuoco, poi li stropiccio ancora incredulo. Tutto vero. Indossa un pigiama di flanella azzurro, scarpe da tennis e una zazzera di capelli arruffati.
«E tu dovresti essere Seth» esordisco con fare pedante.
«E Lei Mr. D» Replica il ragazzo, «piacere…» aggiunge.
«Non è che hai dimenticato di fare qualcos’altro?» Provo a insistere. Seth mi fissa per trenta secondi buoni, poi caccia dalle tasche un foglietto spiegazzato: «Ha ragione… La giustifica, tenga…»
«Veramente mi riferivo al… pigiama…» «Ah, quello. Beh, ero in super ritardo così ho pensato di fare il prima possibile, perché? È un problema?»
Fosse successo in Italia, avrei probabilmente improvvisato un monologo sdegnato alla Cicerone del tipo Quoùsque tàndem abutère, Catilìna, patièntia nostra? – Fino a quando dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza?– Qui in America temo che Seth sia sincero e poi in segreteria verrebbe redarguito da Mr. Malone, il vice preside che stamattina nell’atrio indossava un papillon arancione elettrico.
«Vabbè ho capito, non lo faccio più…» chiosa Seth conciliante andando a sedersi a fianco a Pajr.
Riprendo la lezione. North Carolina, ore otto e venti, ablativo strumentale…
Priscilla si alza dal fondo dell’aula e ancheggia con fare sinuoso, si avvicina alla cattedra e mi pianta due occhi di ghiaccio in faccia. La fisso confuso. Priscilla non parla per un altro secondo buono, poi bisbiglia piano piano, sempre fissandomi dritto negli occhi «Mr.D … your zipper is down.» Poi fa una faccia, come una smorfia complice, come a dire: oops…
Abbasso gli occhi e mi accorgo che ha ragione: la patta dei pantaloni è abbassata…
Fosse successo in Italia, avrei subito pensato a un gesto di insubordinazione…
«De gustibus non disputandum est… sui gusti non si può discutere…» dico sorridendo tra me e me.
A questo punto Uriah alza la mano contrariato: «questo non è ablativo strumentale, è ablativo argomentativo, giusto professore?»
Martedì quattro settembre, prima ora del primo giorno di scuola. Giro gli occhi verso Sarah che dal canto suo mi guarda con fare annoiato.
Hell on earth. Chissà, forse una metafora di questa giornata.
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