Intervista all’autore BE – Michele Di Mauro

Intervista all’autore BE – Michele Di Mauro
  1. Ciao Michele, presentati a chi non ti conosce, raccontaci chi sei…

Papà italiano e mamma americana, sono cresciuto in Italia dove ho insegnato per una quindicina d’anni in diversi licei e scuole superiori. Poi a trentasei anni io e Giovanna, mia moglie, anche lei insegnante, abbiamo mollato tutto e ci siamo trasferiti in Maryland con i nostri figli. Adesso insegno latino in una scuola superiore e italiano e latino come adjunct instructor presso un’università vicino a Baltimora. Viviamo una vita scandita dai ritmi della scuola e della famiglia. Per il resto lunghe passeggiate nei boschi e tanta scrittura e lettura.

  1. Nel tempo libero scrittore e blogger, di professione insegnante: che cosa significa per te insegnare?

Insegnanti si diventa poco alla volta. Si inizia portandosi dietro modelli reali o fittizi imparati tra le pagine dei libri, tra i film, per poi scoprire un giorno alla volta che l’insegnamento è per il novanta per cento un lavoro di relazioni umane e per il resto burocrazia, riunioni e correzioni di compiti in classe. Si fa un gran parlare di scuola, tutti sembrano sapere come e cosa fare, ma poi alla fine, come scrivo anche in una delle mie storie:

Tutti, ma proprio tutti, insegnanti compresi, ritengono che fare l’insegnante sia un lavoro da sfigati.’

Ecco, il mio libro in un certo senso vuole restituire dignità a questo mestiere. In questo sono come Mr. D, il protagonista del libro, quando dice:

Sono un insegnante mai cresciuto. Ho abdicato alla vita adulta confondendomi tra gli adolescenti. Nascondermi tra i banchi di scuola nell’illusione che i miei alunni possano invecchiare al posto mio, nella speranza di accorgermi tutto d’un tratto di essere diventato vecchio senza essere invecchiato.’

  1. Da dove nasce l’idea del libro Hey, sembra l’America

Nel mese di giugno del 2019 ho cominciato a scrivere una serie di storie ispirate agli avvenimenti che vedevo e vivevo quotidianamente nella mia scuola. Una storia a settimana, ogni domenica sera ora americana, o lunedì mattina in Italia. Poi, un mese alla volta, mi ero accorto che non solo amici e parenti, ma anche lettori della rete avevano cominciato a leggere le mie storie. Prima cento, poi duecento, poi settecento… Così, durante le vacanze per la Festa del Ringraziamento ho scritto una e-mail a Beppe Severgnini. Ricordo ancora che era un venerdì sera, avevo appena finito di aggiustare la storia American Education week e poi verso mezzanotte avevo scritto due righe senza troppe speranze. La mattina seguente avevo trovato la sua risposta, pacata e incoraggiante. In sostanza mi consigliava di pubblicare la mia lettera su Italians del Corriere della Sera e di provare a trovare un editore per pubblicare le mie storie. Detto, fatto. Ho mandato il libro a tre case editrici, due mi hanno risposto, tra cui BE.

  1. L’America vera è quella che ci rappresentano oppure c’è un’altra America che non conosciamo?

L’America è un paese a cui tutti guardano con la lente deformata e deformante della televisione, dell’economia, della letteratura. Nella storia ‘Yes we can, make America great again’ a modo mio ho anche provato a spiegarla:

L’ America non ha mai tradito il suo inguaribile ottimismo, l’ha solo metabolizzato e messo in un vasetto di plastica per poi farlo invecchiare con malinconica nostalgia. L’ottimismo è rimasto nel fondo del vasetto che però col tempo è ingiallito e ha perso freschezza, come un Michael Jackson che muore in un sonno indotto, o un Prince che spira soffocato dagli antidolorifici. Giusto un attimo prima di invecchiare.

Da queste parti, ogni sera, dalle sette alle otto, canali televisivi locali si ostinano a trasmettere La ruota della fortuna e Ok il prezzo è giusto e qualcuno si ostina a guardarli illudendosi che nulla sia veramente cambiato. Nelle radio le hit del momento convivono accanto ai vari I like Chopin dei Gazebo o Hungry like the wolf dei Duran Duran.

Gigi Sabani e Mike Buongiorno in Italia sono morti, qui i loro fantasmi americani si trascinano pigramente, rassicuranti come una vecchia macchina vintage. È il vecchio che avanza, o il nuovo che arretra. Così, come si esce dalle grandi metropoli, si torna di colpo indietro nel tempo. A seconda delle latitudini ci si ritrova nei megapixel colorati degli anni Ottanta, tra i flipper psichedelici degli anni Settanta, tra le macchine cromate degli anni Cinquanta. È come se la gente da un lato fosse affascinata dall’innovazione a tutti i costi, ma dall’altra avesse seri problemi nel buttare via ciò che di buono c’è stato. Perfino al ristorante a fine pasto il cibo avanzato si porta a casa per riporlo in frigo e lasciarlo lì; ma non per mangiarlo, solo per non tagliare il cordone ombelicale con le sensazioni della serata, come se fosse davvero possibile racchiudere la gioia di una serata in un doggy bag, un sacchetto per gli avanzi.

Make America Great again forse vuol dire proprio questo: quel fiore putrido ha ancora un odore dolciastro, una fragranza del tempo che fu, basta chiudere gli occhi e riporlo in un doggy bag.

  1. Raccontaci un episodio del libro che ti piace particolarmente e spiegaci il perché

La mia storia preferita è Nostalgia. L’ho scritta tra il nove e il dieci novembre del duemila diciannove e racconta di una persona a cui sono rimasto molto legato. Ricordo che quel lunedì mattina, quando ho aperto il computer per rileggerla, sapendo cosa avrei dovuto scrivere la settimana seguente, ho cominciato a piangere. La storia mi piace anche dal punto di vista narrativo, sa di prosa, ma spesso scivola nel lirismo pur mantenendo un sottilissimo equilibrio tra delicatezza e leggerezza che non risulta mai ridondante. Tutto il racconto ruota attorno alla poesia nevicata di Giosuè Carducci, una poesia sull’amicizia, sulla brevità della vita e sulla morte.

Picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati: gli amici
spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.’

Versi che io ho messo in prosa così:

«Ma a quei ragazzi dirai la verità?» Lo interrompo senza voltarmi, senza fissarlo negli occhi.

Due orioles gialli e neri beccano tra il fogliame mimetizzandosi tra la vegetazione.  

«In che senso?» domanda Rizzo.

Gli orioles volano verso la finestra e picchiano delicatamente ai vetri appannati, guardano e chiamano me, o forse officer Rizzo. 

«Nel senso che se dovesse succedere qui da noi… tu ci proteggerai… perché ci sarai, vero?»

 Una camionetta dei pompieri sfreccia sull’asfalto sferzando l’aria. Gli orioles, con un rapido frullare d’ali si dileguano nel cielo indaco portandosi via la mia domanda.

Quando mi volto, officer Rizzo non c’è più.

Raramente mi è riuscito di scrivere una pagina così cristallinamente precisa al primo tentativo; nel processo di scrittura, quando cerchiamo di trasferire i nostri pensieri sul foglio, c’è sempre un processo entropico, come se l’idea originale perdesse parte della sua purezza nel passaggio dalla mente al foglio. Chissà… forse anche per questo Pier Paolo Pasolini alla fine del Decameron dice: ‘Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto.’

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