Intervista di Beatrice Masi – Prima parte
Il ventiquattro febbraio scorso, alle nove di mattina, ho preso un autobus da Leeson Street a Dublino verso la contea di Wexford – chiamata dagli irlandesi “the sunny south east” – per andare a conoscere Billy Roche. Sono arrivata a mezzogiorno a Wexford Town e Billy Roche era lì alla fermata ad aspettarmi. Ci siamo presentati e Billy mi ha portato a fare un tour per Wexford Town, la città in cui è nato e cresciuto e in cui vive ancora.
Nel film Martin Eden di Pietro Marcello, il protagonista ad un certo punto dice “ho sentito uno spirito creatore che mi divampava dentro, che mi incitava a fare di me uno degli orecchi attraverso cui il mondo sente, uno degli occhi attraverso cui il mondo vede”, se questo è vero per molti scrittori di certo lo è per Billy Roche che nelle pagine dei suoi libri e nelle sue opere teatrali è riuscito a rappresentare e a dar voce al suo pezzo di mondo, alla città di Wexford e ai suoi abitanti.
Dico questo perché, passeggiando per le strade della città, ho riconosciuto tutti i posti che Billy descrive nella sua raccolta I racconti di Rainwater Pond. Ho riconosciuto la sala da biliardo, il mercato The Bull Ring, Useless Island, le barche di molluschi e mitili ancorate al porto, e la sala da ballo. Ma forse, la parte più bella della mia visita a Wexford è stato camminare sui binari del treno come fanno i bambini nel racconto Mystic e arrivare allo stagno di Rainwater, e immaginare lì, vicino quella cava abbandonata riempita dall’alta marea, tutti i personaggi del libro: Tommy Day, Evelyn, Maggie Angre, Kevin Troy, cristallizzati per sempre dalla penna di Billy Roche.
Verso sera, Billy mi ha accolta a casa sua e ho avuto il piacere di intervistarlo, e questo è quello che ne è venuto fuori.
Hai scritto I racconti di Rainwater Pond dopo una lunga carriera come musicista e drammaturgo, da dove è partita l’idea di scrivere un libro di racconti brevi?
Ho sempre amato la short fiction, e i romanzi brevi. Se dovessi dire quali sono i miei libri preferiti direi Morte a Venezia, I morti di James Joyce, Il giro di vite di Henry James, Il carteggio Aspern, ma anche Checov e Flaubert. Questi libri mi hanno sempre affascinato, e sono dell’idea che certe volte si impiega troppo tempo per dire qualcosa, si va troppo per le lunghe. Io sono anche un cantautore e questo ha giocato un ruolo importante nella stesura del libro; si imparano molti trucchi quando si scrivono canzoni, soprattutto su come trasmettere emozioni in maniera veloce e diretta.
In che altro modo la musica ha influenzato la stesura del libro?
La prima cosa è la musicalità della lingua, il ritmo. Anche James Joyce era un musicista, cantante e chitarrista; Samuel Beckett aveva una scrittura molto musicale, e quasi ogni drammaturgo che conosco ama la musica.
In Italia il libro è stato accolto con entusiasmo da un pubblico molto eterogeneo. Di fatto “I racconti di Rainwater Pond” è una raccolta che, pur descrivendo Wexford (anche se non apertamente), tratta di temi che accomunano tutti gli esseri umani, per esempio c’è una forte attenzione verso le emozioni umane. In questo si vede la forza dei microcosmi letterari. Quali sono le peculiarità del microcosmo di Wexford?
Quando ho inziato a scrivere – forse inconsciamente – ho capito che dovevo trovare la mia voce, e credo di esserci riuscito anche grazie al posto da cui provengo, a Wexford. Per questo ho cominciato a guardare con più attenzione le persone che vivono qui, e a cercare lo straordinario, il mitico, nell’ordinario. Quello di cui mi sono reso conto è che la maggior parte dei giorni tutto è tranquillo e non accade nulla di speciale, ma ci sono giorni in cui qualcosa di diverso accade, e quello è il momento che tutti ricordano, e di cui tutti parlano. Come l’avventura amorosa che non doveva succedere ma che è successa o il crimine in cui sono stati coinvolti e che avrebbero voluto evitare. E credo che più la cosa che si vuole raccontare è piccola e ordinaria, tanto più grande deve essere il coraggio dello scrittore nel credere che ciò che a qualcuno può sembrare insignificante e di poca importanza, per un altro invece ha un peso enorme. I miei personaggi non scalano montagne, ma piuttosto aiutano altri a scalarle mentre loro si prendono cura della tenda a valle. Non hanno nessuna ambizione di scalare montagne, la loro amibizione è semplicemente quella di vivere e di essere pagati per il loro lavoro, di montare una tenda e prendersene cura. Credo fortemente che quando si cerca di scrivere storie di “giganti” non c’è nient’altro da raccontare al di fuori della loro pura ambizione e del fatto che siano riusciti ad arrivare in cima alla montagna.
L’universo del libro sembra spesso diviso in due parti. Da un lato troviamo le donne e dall’altro gli uomini, e in molti racconti queste due parti sembrano scontrarsi ed entrare in conflitto. Quali sono le principali differenze tra uomini e donne nel libro? E quali i loro ruoli?
Questa è una domanda difficile. La maggior parte delle storie sono ambientate in una specifica zona della città, in cui le persone hanno una mentalità molto chiusa, anche dal punto di vista sessuale. Gli uomini continuano ad avere i loro ruoli e pretendono che le donne abbiano i loro. Tutti cercano di rimanere dentro gli schemi, e credono che la rottura delle abitudini possa portare solo rovina. Anche se molte volte, come nel racconto Il negozio di merceria, le donne si dimostrano più forti degli uomini. Io, come scrittore, non posso far altro che descrivere la realtà di cui sono testimone.
Molti personaggi del libro sembrano avere forti desideri incompiuti. Ma nonostante questo non fanno nulla per realizzare i loro sogni a causa di convenzioni sociali, e di paure e idee infondate che esistono solo nella loro mente. Cosa sognano i tuoi personaggi, e cos’è che li incatena?
I sogni e i desideri sono cose strane. Dopo tutto chi te lo fa fare a mettere la tua vita in pericolo, a saltare nel vuoto per realizzare un desiderio? Ci serve molto coraggio. Abbiamo appena parlato di donne e uomini. Gli uomini sono probabilmente troppo codardi per inseguire i loro sogni, preferiscono stare al sicuro dove si trovano. Un’altra cosa che succede nelle piccole comunità – nella tribù – è che quando qualcuno riesce a realizzare un sogno fa si che tutti gli altri appaiano un po’ come dei perdenti, e per questo cercano di mettergli i bastoni fra le ruote. Nella mia vita ho sempre fatto molte cose, ho seguito i miei sogni, e spesso le persone hanno cercato di fermarmi. La gente è orgogliose di te, quando torni dopo aver avuto successo, ma allo stesso tempo cerca di tarparti le ali. La maggior parte dei miei personaggi purtroppo non ha grandi sogni né desideri, vogliono solo essere sereni, avere una famiglia, una casa e solo i più coraggiosi si avventurano fuori dalla loro zona di comfort.
Mi è sembrato che il protagonista dell’ultimo racconto, Kevin Troy, il giovane giocatore di hurling fosse un ragazzo molto coraggioso.
Sì è così. È come se quel personaggio sia saltato fuori nell’ultimo racconto per darmi una lezione. È troppo giovane, innocente e ingenuo per capire davvero cosa sia successo nella storia. E anche il modo in cui finisce il racconto ci fa vedere come le persone guardano avanti al futuro, e pensano “ciò che è stato è stato”, meglio non parlarne più, la vita va avanti. Una cosa che cerco sempre di fare, alla fine delle mie storie è portare i personaggi su un piano più alto della loro esistenza, cosicchè siano un po’ più saggi e un po’ più consapevoli.
Come una sorta di epifania, se vogliamo utilizzare un temine joyceano.
Assolutamente. Cerco sempre di terminare i miei racconti con un’epifania, per quanto piccola. Anche se ci sono personaggi che non sono destinati ad averla, come Matty per esempio del racconto “Uno non è un numero”.
Passiamo alla prossima domanda. La natura è quasi la protagonista del libro, la sua presenza è tangibile in ogni racconto, in modo non meramente decorativo ma dinamico, comunica con i personaggi e li accompagna nelle loro disavventure. Potresti parlare un po’ del ruolo della natura, e della sua simbologia?
Io cerco sempre di trasmettere emozioni attraverso la descrizione del tempo e dell’ambiente naturale, ci sono molti modi per parlare di sentimenti, ed utilizzare la natura è uno di quelli. Per quanto riguarda la simbologia, bisogna dire che la mitologia irlandese è piena di elementi naturali, e delle volte emergono nelle mie pagine in maniera quasi inconscia. Per esempio l’immagine dei due cigni in Maggie Angre. In questo senso The Children of Lir è un mito molto presente nella storia del teatro, già Shakespeare lo utilizzò nella scrittura del Re Lear. Il mio ufficio è pieno di quelli che io chiamo “i miei libri magici” pieni di metafore, immagini e simboli. Li leggo e poi cerco di sotterrarli dentro di me, ma quando scrivo risalgono in superficie. Anche la scelta della parola Tales/Racconti per il titolo, si rifà un po’ a una dimensione mitica e fiabesca.
Come usi la mitologia nelle tue storie?
La mitologia è la spina dorsale di ogni mio racconto, ci sono sempre dei miti dietro le mie storie. La mitologia greca in particolare ha un ruolo importantissimo nella mia produzione. Per esempio il racconto Indaco è basato sul mito di Persefone, e Uno non è un numero sul mito di Efesto. Per questo motivo la protagonista del primo racconto non ha un nome, perché non è altro che Persefone stessa.
Qual è invece il ruolo della cultura pop americana?
La cultura pop americana ha un’importanza fondamentale. Quando ero ragazzo c’erano tre cinema a Wexford Town – Cinema paradiso in questo senso potrebbe parlare della mia città – cambiavano la programmazione ogni due giorni e c’erano due film a sera. Io andavo a vedere tutti i film, il che significa 10/12 film a settimana. Per di più a casa mia la radio era sempre accesa e c’erano solo tre stazioni, una delle quali era Radio Luxembourg. Tutto il mondo ascoltava in radio le stesse canzoni. Per me le canzoni pop sono opere d’arte, perché sono piene di ritmo, significato e hanno un logica propria e le migliori riescono a toccarti nel profondo in maniera quasi soprendente. Oltretutto, la cultura pop mi aiuta a nascondere il substrato mitologico dei miei racconti.
Questo mi fa pensare allo stile in cui sono scritti i racconti. A un occhio disattento potrebbe quasi sembrare che siano scritti in maniera molto semplice e lineare, ma in realtà non è così.
Riguardo lo stile posso dire che i miei personaggi non hanno la padronanza linguistica di un professore universitario, e io ho deciso di riportare la loro lingua per quella che è; solo uno scrittore codardo modificherebbe la lingua dei suoi personaggi, perché è proprio lì che risiedono le loro emozioni. Quello che dico sempre è: non sottovalutare una frase semplice, perché anche se semplice potrebbe essere la migliore.
[Fine prima parte]
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