Recensione – Il manuale dei baffi di Pee Gee Daniel (Battaglia Edizioni, collana Millenial bug, 2019) – con illustrazioni di Giulia Tudori
Articolo di Edoardo Bassetti
«La barba in effetti è roba da profeti, da messia, da santi o da sapienti stoici. I baffi sono diabolici. I baffi sono mefistofelici (ancor più se sovrastano un pizzo a triangolo rovesciato). Sono la vanità di tutte le vanità (p. 26)».
E Mefistofele, si sa, è il miglior tentatore che ci sia: non c’è Faust che tenga, a meno che un’innocente Margherita non corra prontamente in soccorso. Ma al giorno d’oggi di Margherite, camminando lungo la strada, non se ne trovano più molte, e Pee Gee Daniel lo sa perfettamente: proprio per questo, forse, ha deciso di mettere la sua brillante poligrafia al servizio di una tematica particolarmente intelligente e funzionale per la prima pubblicazione di una piccola casa editrice come Battaglia Edizioni; se da una parte permette infatti di conservare quell’originalità che almeno (almeno!) le piccole case editrici riescono ancora a garantire, dall’altra si rivolge comunque a un discreto e marcato bacino commerciale, date le tendenze Vintage e Hipster degli ultimi anni.
«Nella speranza di inaugurare così una felice serie di studi mustachiologici, tenteremo in queste pagine di comprendere per quale ragione l’uomo si faccia crescere i baffi, sotto il profilo filogenetico e ontogenetico, da un punto di vista storico e personale: il baffuto come categoria collettiva e il baffuto quale individuo storico-empirico (p. 12)».
Ma l’understatement, ci mancherebbe, avant tout chose: le premesse scientifiche vengono ben presto nascoste sotto il tappetto dell’(auto)ironia, e celate fra le fitte maglie (forse anche un po’ troppo) del tessuto retorico, specie nelle numerosissime domande iniziali. La fluidità dello stile, così lontano dall’orizzonte di attesa cui la parola “manuale” è associata, rende talmente piacevole l’itinerario speculativo che neanche ci si accorge, tappa dopo tappa, di aver presto raggiunto una vetta che mica era così bassa, a guardarla da laggiù: Daniel riesce infatti a citare in scioltezza brani biblici, Duchamp, frasi in greco, Stalin, Narciso, Arabi e Normanni, Eduardo de Filippo, Stalin, Frida Kahlo e Lupin, guidandoci con maestria lungo un arco (ma verrebbe da dire un “baffo”) temporale e spaziale impressionante, e per di più senza mai apparire inopportuno e fuori luogo.
«L’abnegazione che la coltura dei baffi chiede è la cura maschile che più rassomiglia alle infinite blandizie muliebri che il gentil sesso riversa sul proprio corpo (p. 27)».
È questa una delle osservazioni che più mi hanno colpito, geniale cortocircuito di stereotipi: i baffi, vero e proprio correlativo oggettivo – potremmo azzardare – della virilità, a pensarci un attimo, sono in effetti l’aspetto più femminile che un uomo possa coltivare. Ma femminile, poi, in che senso? Che la mia coinquilina si mette il borotalco per non lavarsi i capelli, e quando andiamo a fare aperitivo ha già finito il primo piattino quando io sto ancora cercando il coltello di plastica!
Ma che poi arrivato alla fine di questa recensione mi sorge un altro dubbio: con quale faccia tosta mi è venuto di scrivere che forse l’autore ha usato troppe domande retoriche? A rileggermi, piuttosto, direi proprio che “mi fa un baffo”!
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